Produrre biocarburanti carbon neutral è possibile: basta scegliere terreni, colture e metodi sostenibili.
Nella revisione della Direttiva sulle energie rinnovabili (RED II) l’UE stabilisce che entro il 2030 il 14% dell’energia destinata ai trasporti dovrà essere di rinnovabile e fissa nuovi criteri di sostenibilità per i combustibili da biomassa. In particolare, dovranno coprire il 2,2% dei consumi finali i biocarburanti avanzati, cioè quelli prodotti da materie prime lignocellulosiche, colture non alimentari e rifiuti. Occorrerà perciò investire nella ricerca sulla produzione sostenibile di biofuel, come sta facendo ENI in Africa con i suoi agri-feedstock da olio.
Cosa sono i biocarburanti?
Può essere definito biocarburante o biofuel qualsiasi combustibile derivato dalla biomassa, cioè da materiale vegetale, algale o da rifiuti animali. Si tratta di materiali che possono essere continuamente reintegrati, dando perciò origine a carburanti rinnovabili, a differenza dei combustibili fossili come petrolio, carbone e gas naturale. Nel contesto dell’aumento dei prezzi di questi ultimi e della crescente preoccupazione per il loro contributo al riscaldamento globale, i biofuel rappresentano perciò un’alternativa sostenibile sia dal punto di vista economico che ambientale.
Tra i biocarburanti a base di biomassa più diffusi c’è il legno stesso, utilizzato come materia prima bruciata per produrre calore. Il calore prodotto, a sua volta, può essere utilizzato per far funzionare i generatori di una centrale elettrica per produrre elettricità. Biofuel di particolare interesse sono però quelli liquidi, grazie alla vasta infrastruttura già esistente per utilizzarli, soprattutto per i trasporti. Ecco qualche esempio:
- l’etanolo (alcool etilico), prodotto dalla fermentazione dell’amido o dello zucchero, per esempio dal mais oppure dalla canna da zucchero. Viene bruciato in purezza oppure miscelato in diverse percentuali alla benzina. Il “gasohol”, per esempio, è composto per il 10% da etanolo, ma in alcune miscele raggiunge anche l’85%. Esiste un etanolo di “prima generazione”, prodotto da colture alimentari e un etanolo cellulosico di “seconda generazione”, che deriva da biomasse di basso valore che possiedono un alto contenuto di cellulosa ed è utilizzato principalmente come additivo per benzina.
- il biodiesel, prodotto principalmente da piante oleose (come la soia o la palma da olio) e in misura minore da altre fonti oleose (come il grasso di cottura di scarto delle fritture dei ristoranti). Viene utilizzato nei motori diesel e solitamente miscelato con gasolio derivato dal petrolio in varie percentuali. Esiste anche un biodiesel di “terza generazione” prodotto a partire da alghe e cianobatteri.
- gas metano e biogas, che possono essere derivati dalla decomposizione della biomassa in assenza di ossigeno, e metanolo, butanolo e dimetil etere, che sono in fase di sviluppo.
Le criticità
Le preoccupazioni riguardanti la portata dell’espansione di alcuni biocarburanti è connessa ai costi economici e ambientali associati al processo di coltivazione e raffinazione delle biomasse. Nel valutare la sostenibilità dei biofuel si deve infatti tener conto innanzitutto dell’energia necessaria per produrli. In quanto fonte di energia rinnovabile, i biocarburanti di origine vegetale in linea di principio contribuiscono poco in modo diretto al riscaldamento globale e al cambiamento climatico. L’anidride carbonica emessa durante la combustione viene infatti rimossa dall’aria quando le piante in crescita fanno la fotosintesi. Tuttavia, la produzione industriale di biocarburanti agricoli può comportare ulteriori emissioni di gas serra. Per esempio, durante la combustione di combustibili fossili durante il processo di produzione, oppure nel processo di coltivazione, che consuma combustibili fossili nelle attrezzature agricole. Ma anche nella produzione di fertilizzanti, nel trasporto della biomassa e nella distillazione.
Inoltre, le coltivazioni destinate alla produzione di biofuel potrebbero portare alla sottrazione di vaste aree di terra arabile e di materie prime alla produzione alimentare. Così facendo, la produzione di biocarburanti può influenzare il prezzo e la disponibilità del cibo. Inoltre, le colture energetiche possono competere in termini di habitat naturali, sostituendo monocolture a ecosistemi biodiversi. La perdita di habitat naturale può modificare l’idrologia, aumentare l’erosione e in generale ridurre la biodiversità delle aree faunistiche. Mentre lo sgombero del terreno può provocare l’improvviso rilascio di una grande quantità di anidride carbonica sequestrata nella materia vegetale che viene bruciata o lasciata marcire.
I biocarburanti sostenibili di ENI
Un modo per produrre in modo sostenibile i biofuel è scegliere terreni agricoli degradati per coltivare una miscela di specie diverse. In tal modo si aumenterebbe e non diminuirebbe l’area disponibile alla fauna selvatica, si ridurrebbe l’erosione, si ripulirebbero gli inquinanti presenti nell’acqua. E si incoraggerebbe anche lo stoccaggio di anidride carbonica nel suolo, ripristinandone la fertilità.
Queste idee sono alla base della produzione di agri-feedstock di ENI, materie prime certificate che non competono con il settore alimentare e possono anche creare sviluppo e occupazione nelle comunità locali interessate. Si tratta di colture non commestibili da olio – ricino, croton, brassica, camelina, co-prodotti del cotone –, coltivate su terreni precedentemente degradati e abbandonati. Al momento, sono sparsi tra Angola, Benin, Congo, Costa d’Avorio, Kenya, Mozambico e Ruanda.
L’obiettivo, oltre a produrre biocarburanti avanzati, è di creare valore sul territorio riqualificandone delle aree e creando occupazione. Si affida infatti ad agri-hub locali in cui si raccolgono e spremono semi, lavorando la materia prima per estrarre olio destinato a bioraffinerie italiane. In Kenya è intanto partito anche un progetto di valorizzazione dell’olio da cucina esausto usato in hotel, ristoranti e bar di Nairobi, sempre per produrre biofuel avanzati.